Critica

CLAUDIO ABATE
Sergio Selva nel suo studio – foto: Claudio Abate

Pericle Fazzini, Introduzione al catalogo della personale presso la Galleria del Vantaggio, Roma, ottobre 1957

Caro Sergio,

dopo la visita al tuo studio, ho parecchio ripensato ai tuoi quadri: hai fatto molto cammino – e lo noto con piacere – dall’ultima tua personale del 1946 al Cortile. Infatti nelle tue cose più recenti, come i ritmi agresti e quelli subacquei, ho osservato una sempre più esplicita trasfigurazione verso il lirismo spaziale e cromatico; maggiormente dove si avverte il distacco dall’oggetto per arrivare alla sua sintesi fantastica, cioè alla sua creazione. Ciò che è, ovviamente, l’aspirazione di ogni autentico artista.

Ti auguro di cuore ogni bene e ti saluto con affetto, tuo

Pericle Fazzini

 

Fortunato Bellonzi, Introduzione al catalogo della personale presso la Galleria Russo, Roma, marzo 1961

Più sicuro nella tempera, che gli consente di dare alle immagini il sapore di affreschi distaccati, Sergio Selva ha saputo assimilare gli spunti fruttuosi da Picasso, da Pirandello e anche da Scipione, là dove appare meglio scoperta – nel tema quasi unico dei «bagnanti» – l’intenzione di renderci il sentimento di un’esistenza umana liberata dal peso delle consuetudini, docile al richiamo della grande vita naturale. (Indichiamo al visitatore come particolarmente significativa una piccola tempera con un unico personaggio rosso, disteso o piuttosto premuto con forza contro la terra sotto il grande spazio vuoto del cielo). Nelle opere più felici il colore si fa chiarissimo, corroso da una luce bianca: le figure quanto perdono di definizione oggettiva, tanto acquistano di verità fantastica nel dilatato spazio del quadro, quasi monocromo, ma con molta finezza di mezze tinte, di grigi e rosa sottili e diffusi, e con scritture fluide di contorni abbandonati e ripresi.

Si direbbe che Selva non abbia trascurato neppure certi esempi famosi di pittura parietale romana: si pensa ai riquadri di colore tenue, su fondo bianco, negli affreschi della villa romana della Farnesina, dove l’antico maestro esprimeva, come in altrettanti dipinti appesi alle finte architetture, la nostalgia di una perduta purezza attica con fine gusto antiquario. E poiché progressi ne ha compiuti, e notevoli, dalla mostra personale del ‘57 (fu presentato, allora, da Pericle Fazzini) sempre nella ricerca di un affinamento e di una semplificazione dei mezzi espressivi, ci sembra che oggi possiamo guardare alle opere recenti del nostro pittore come ad un punto certo di arrivo.

 

Rafael Alberti, Sergio Selva 1969 (Traduzione di Marcelli Eusebi Ciceri)

Con vapori di fiume,

soffi della montagna,

alito della terra.

 

Con albeggiare muto,

con occhi non dormienti,

sogno dopo del sogno.

 

Con pascoli intravisti,

azzurri diluiti,

con ocra evaporati.

 

Con ricordati grigi,

con rosa ormai svaniti,

oscurità di luna.

 

Con aspirati verdi,

ombrosità silenti

e forse con il vento.

 

Cavalli solitari

come pesci che balzano

uomini solitari.

 

Uomini soli, a bere,

e nudità sperdute.

 

Con la realtà che esiste,

con la terra che esiste,

però dopo sognate.

 

È questo che si vede,

è questo che si tocca,

che grazie a te rimane.

 

Rafael Alberti, Anticoli Corrado, 1969

 

Fortunato Bellonzi, Sergio Selva, in «Alfabeto», 15-30 settembre 1969, nn. 17-18

Le forme larvali, che Selva faceva scaturire dalla materia dei fondi viscosi circoscrivendole con un segno continuo, spesso ripassato più volte, e appena rilevandole con poche note di colore disteso, sono venute precisandosi, col tempo, in persuasivi ritagli dello spazio pittorico, in impronte decise e sicure, in memorie più chiare di antichissime pitture rupestri, crescendo di significato, di capacità evocativa. Le figure degli uomini e degli animali si collocano ora come isole nitide e appiattite, come varianti della superficie cromatica preziosa, articolata con grande finezza, né senza accortezze eleganti che hanno tenuto conto della rinata attenzione alle flessioni idealizzanti dell’Art Nouveau, cui risalgono altresì la propensione per la linea curva, flessuosa, gareggiante con l’onda melodica, e gli avveduti e misurati innesti decorativi di piccole tessere di colore puro sui nastri bruni, che ci riportano a Klimt, come spesso l’immagine del dipinto ci conduce a Redon, ma per affinità di propositi e di gusto assai più che per un accostamento premeditato. Sono opere, specie queste recenti, che possiedono un loro fascino innegabile nel gioco sottile delle interferenze e delle trasparenze, da cui nasce il tono di una narrazione incantata, pacatamente favolosa, la quale ci suggerisce nell’autore, l’intenzione di celebrare, nei modi di un’eloquenza coltivata e sommessa, un’antica armonia, dell’uomo e della natura, oggi quasi affatto perduta, di far riaffiorare le immagini di un eden remoto con lo struggente desiderio di recuperarlo ma anche di esprimerlo con sentimento moderno. Il bisogno del mito, il senso sempre risorgente del mistero, è un aspetto tutt’altro che secondario dell’arte contemporanea (si pensi alla vastità e ricchezza delle esperienze del surrealismo, e alle direzioni nuove su cui esso si è incamminato, col largo seguito nei giovani artisti, in prosecuzione e al di là del surrealismo storico) e la pittura di Selva rientra con una voce sua propria, nella convinzione dilagante che poesia non si dà senza mitologia, che la fantasia permane la «reine des facultés», come Baudelaire la chiamava opponendola all’oggettivismo della visione. Un surrealismo quello di Selva, che ignora i mostri insorgenti dal sonno della ragione, ma che illumina quietamente l’angolo segreto della nostra interiorità profonda dove si annidano, consapevoli o meno, le nostre aspirazioni alla poesia come all’unica possibilità di conoscere, per vie alogiche, che cosa siano il mondo e la vita.

 

Dino Buzzati, in «Corriere della Sera», 8 maggio 1970 (recensione della personale presso la Galleria Gian Ferrari, Milano, maggio 1970)

Dopo lungo cammino, verso sera, intravedemmo, immobile sul ciglio di un dosso, un cavaliere, avvolto dalle nebbie che salivano lentamente. Sia l’uomo sia il quadrupede parevano stanchissimi. Lo chiamammo, ma lui non rispose, né passando i minuti accennava menomamente a muoversi: come una statua. Ma dove ci trovavamo? Fluide masse di corpose brume che si attorcigliavano come ectoplasmi ci impedivano di capire se eravamo in un deserto, o sulla riva di uno sconosciuto mare (ci giungeva però molto vago, un ritmico profondo sospiro, come di svogliata risacca), oppure alla frontiera dell’ultima Tule. Su tutto certamente dominava – tipico di questo interessante pittore romano, nato nel 1919 – un sentimento di misteriosa attesa, di fantasmagorico languore.

 

Umberto Parricchi, In ricordo di un pittore: Sergio Selva, in «Paese Sera», 19 agosto 1980

Da pochi giorni avevamo festeggiato Sergio Selva per l’inaugurazione della mostra personale alla Galleria d’Arte Porto di Ripetta qui a Roma. A distanza di mesi lo rivedo tra la folla degli invitati con la stessa aria semplice e scanzonata, lo stesso sorriso aperto e ammiccante di sempre. Alle pareti, i collages e gli affreschi distaccati, esposti per la prima volta, racchiudono il suo mondo poetico fatto di pochi temi ricorrenti, originati da un sentimento sepolto nell’inconscio e riaffiorante perentoriamente nello spazio formale. Nei collages il filo metallico dei contorni delle figure ridotti al massimo dell’essenzialità, interferisce con le delicate trasparenze cromatiche in un gioco di raffinata eleganza. Una pittura la sua al limite dell’astrazione, dalle tonalità controllate, il ritmo plastico ben tenuto, evidente negli affreschi; una pittura al servizio di un’intuizione figurativa che si manifesta come necessità segreta di trascendere l’esistenza ricollegandosi ai miti di un eden perduto; i cari fantasmi dell’adolescenza (anche della nostra) aggirantisi tra i boschi e la valle di Anticoli Corrado e intorno al miracolo delle acque sorgive; i bagni spensierati nella campagna protetta dal baluardo di cime montuose ammantate di verde, alleate col celeste del cielo; il calore intenso ella terra e il silenzio dell’eternità accompagnato dal basso continuo delle cicale. A questo infranto rapporto con la natura si ricollegano le reazioni emotive di Sergio Selva. Avremmo dovuto parlarne di più (ma con quali presentimenti?). Invece ci salutammo in fretta con l’intesa di rivederci, come d’abitudine, ad Anticoli nella bella stagione che non poteva tardare più oltre. In altra occasione (vedi Paese Sera del 26/5/1979) abbiamo ricordato la forte presenza nei primi decenni del Novecento, di artisti italiani e stranieri in quel celebre paesello ai confini orientali della campagna romana. Nel secondo dopoguerra gli artisti, per seguire una tradizione che risale alla metà dell’Ottocento, avevano continuato ad incontrarsi nella piazza delle Ville, luogo privilegiato di una socialità integrata.

Rafael Alberti, esule politico, nel 1969 aveva dedicato a Sergio una poesia (tradotta da M. Eusebi Ciceri) che parla di pascoli intravisti, di cavalli solitari, di uomini soli, di nudità sperdute, di azzurri diluiti, di ocra evaporati, di ombrosità silenti. «Esto es lo que se mira, / esto es lo que se toca / E por ti permanece» (è questo che si vede, / è questo che si tocca, / che grazie a te rimane), concludeva Alberti con accenti che oggi acquistano il valore di un puntuale presagio. Ma la consuetudine di quegli incontri faceva velo ad una realtà che cominciava a cambiare e poi diventò illusione, un’illusione indotta dall’immutato scenario della piazza ampia, soleggiata, con la fontana di Arturo Martini e i platani a corona, e, al vespro, dai rintocchi sempre uguali della campanella della chiesa romanica di San Pietro, incastonata e seminascosta nell’angolo ascendente verso le montagne di quella «eterna agorà». Dopo la scomparsa della bohème cosmopolita e il cambio delle generazioni, in quel microcosmo rurale qualcosa era finito dentro e fuori di noi. Sergio si era opposto al corso inarrestabile del tempo esistenziale con la ricerca inesausta e tormentata del tempo e dello spazio ideali e l’urgenza di esprimere una verità interiore con i mezzi, che gli s’erano andati sempre più affinando, di una personalissima esperienza estetica. Tornai (e che altro avrei potuto fare?) a rivedere la sua ultima mostra prima che chiudesse definitivamente. Quelle pareti bianche coperte dalle sue opere, quella sala stretta e irrimediabilmente vuota della sua presenza fisica, soltanto quelle cose visibili che restano potevano dire di un incontro affrettato nel disinganno di un mondo inesplicabile. Con la scomparsa di Sergio Selva una delle ultime schegge – appartenenti ad una tradizione iniziata con il sorgere e poi continuata con il rafforzarsi di un’alleanza tra contadini e artisti, in un ambiente favorito dalla natura – si distacca dal grande albero di una storia municipale, le cui vicende superano i confini geografici. Il rimpianto per un amico e soprattutto per un pittore, che cade repentinamente nella piena maturità e nel mezzo della sua operosità più evidente, si accompagna a questa consapevolezza.

 

***

 

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